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  • GiustaDiSale

La realtà e il mito degli anni Sessanta

Puntuale ogni anno riciccia il post che osanna la vita che si faceva negli anni Sessanta. Un testo zuccherino per dire che tutti stavamo meglio, tutti andavamo in vacanza per mesi interi e tutti eravamo pure più buoni. Foto in bianco e nero: coda di utilitarie sulla via del mare, le valigie legate sul tettuccio, e la nostalgia è servita.


Subisco il fascino degli anni Sessanta: le sue acconciature piene, le pellicole capolavoro, il twist che spegne la musica da camera, il boom economico e tutto il resto. Mi guardo bene dal discutere che furono anni in cui i motori del benessere rombavano, tanto che il “Daily Mail” ci definiva «uno dei miracoli economici del continente europeo». E so bene che il “Financial Times” assegnò allora alla lira l’Oscar della moneta più solida. Epperò. Tentiamo uno sforzo di lucido e garbato distacco e osserviamo anche altri ritratti senza inforcare per forza i pesanti occhiali del «Si stava meglio prima».


Ecco che tra gli scatti di Paolo di Paolo – che in quegli anni con Pasolini girava la penisola per raccontare come eravamo – mi blocco sull’immagine di una famiglia: padre, madre e figlio. Sono sul bagnasciuga di Rimini, di spalle. Leggo la didascalia: “La prima volta al mare”. Il racconto, intitolato “La lunga strada di sabbia”, verrà pubblicato su “Successo”, rotocalco diretto da Arturo Tofanelli. Adesso, prendete quella fotografia e moltiplicatela per migliaia e migliaia di volte. E badate, fatelo anche per gli anni successivi, perché di italiani che non avevano mai visto il mare e non lo avrebbero veduto negli anni Sessanta ce ne erano tantissimi.


La lunga vacanza non era affatto per tutti. Molti dei privilegiati automobilisti (perché tali erano), immortalati in fila sulle strade appena inaugurate, bene che andava tornavano nel Paese di origine a trovare i parenti per qualche giorno. Domandatelo al papà del macellaio quanti mesi di vacanza facesse in quegli anni, vi riderà in faccia. Così il proprietario della trattoria, il papà del meccanico e la sarta (ormai lei non lavora più, peccato): stessa reazione, e se lo scrivo è perché l’ho fatto. Mentre mio nonno Giovanni – un Finanziere, quindi dipendente pubblico da stipendio dignitoso e sicuro, che aveva quattro figli – in vacanza mica ci andava.

In quegli anni circa 35mila persone superavano l’esame di quinta elementare, anche grazie alla straordinaria capacità di insegnare del maestro Alberto Manzi (cugino dell’altro mio nonno, e mi concederete questo piccolo vanto), che dal 1960 al 1969 condusse “Non è mai troppo tardi”, programma Rai per analfabeti organizzato con il Ministero dell’Istruzione. Perché non è vero che tutti fossero allora felicemente vicini di ombrellone del cummenda, al Forte dei Marmi come a Fregene. Mentre è vero che molti, con coraggio, grandissima forza e lodevole tenacia, la sera – dopo una giornata di lavoro pesante – imparavano a leggere e a scrivere.


Oggi abbiamo milioni di italiani che scrivono sui social, magari con qualche svista grammaticale e sintattica di troppo, anche delle loro vacanze. Ci auguriamo che i villeggianti siano sempre più numerosi, ne hanno bisogno loro ma anche la nostra economia. Ah, quasi dimenticavo la questione dell’«Eravamo tutti più buoni». Ma veramente ci crediamo?


Articolo uscito su La Ragione il 05-08-2021









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